Domenica 31 maggio 2020 – Pentecoste A – Giovanni 20,19-23

Pubblicato da emme il

Il luogo di cui parla il vangelo di Giovanni, probabilmente il cenacolo, è una tomba e la pietra che la chiude non è ancora stata rotolata via. Qualcuno fa notare che non si parla più del gruppo degli Apostoli ma vagamente di discepoli. Sono insieme ma non in comunione. Sono vicini ma distanti. Un articolo del Credo Apostolico, quel distillato di nozioni che recitiamo per dire ciò in cui crediamo, ad un certo punto ci fa dire: “Discese agli inferi”. Gesù raggiunge quell’inferno in cui, dopo la sua morte, sono piombati i suoi. Arriva lì come arriva in ogni inferno per debellare la paura e far germogliare la gioia. Cosa li tiene distanti, come tiene distanti noi ora, rigorosamente posizionati ad un metro gli uni dagli altri, se non la paura? La gioia, pur timida, che fende quella coltre fatta di diffidenza e di paura, di smarrimento e di incertezza, irrompe, si fa largo perché il Crocifisso Risorto si rifà presente. È la gioia che affiora in virtù di questo inatteso incontro? La tensione si scioglie perché con i loro occhi contemplano la vita che ha vinto la morte. Al loro cospetto c’è sì il Vivente ma dopo essere transitato dentro la bufera, dopo aver superato la tempesta. Immagino che in quei cuori si sia riaccesa la speranza: ogni fallimento è superabile, ogni sconfitta è oltrepassabile, ogni morte può generare vita. Il Cristo è come il nuovo Adamo da cui Dio trae un’altra Eva cioè un’altra umanità, un’altra chiesa. Il fianco lacerato del corpo del Cristo è come utero che ancora si apre per riconsegnarci alla vita, per rilanciare infinite possibilità. La fessura aperta sulla roccia dal bastone di Mosè nel tempo dell’esodo e il fiume che sgorga da un lato del tempio nel racconto che ne fa il profeta Ezechiele, sono immagini che l’Antico Testamento ci regala per arricchire la lettura di quest’evento e farci riabitare la vita nella speranza. Ogni arsura trova ristoro, ogni aridità diventa feconda. E allora il Risorto risospinge i suoi nel mondo insufflando in essi l’alito della vita. E ritorniamo così alla prima pagina della Scrittura. L’uomo diventa un essere vivente perché lo Spirito di Dio lo riempie. È come rigonfiasse un uomo afflosciato, è come ridesse energia ad un corpo arreso, è come ridesse forma ad un’esistenza sfigurata. Altra vita ma per mandarci in quel mondo che ha bisogno di noi ma per portare lui. Se torniamo a quelle mani segnate dai chiodi ci ricordiamo delle vite toccate dalla sua tenerezza, sfiorate dalla sua misericordia, accarezzate dalla sua compassione. E quindi si va e dove andiamo siamo lui. Andiamo noi ma in realtà portiamo lui. Ed è come ci dicesse: “Voi siete me”. Allora sarà il caso di domandarci e sul serio, di cosa si fa veicolo la nostra vita, cosa vi transita, cosa la attraversa. “Ricevete lo Spirito!”. E se non fosse un imperativo, un ordine ma una supplica? Il valore di un dono è amplificato dalla nostra disponibilità ad accoglierlo. “Una buona misura, pigiata, scossa, traboccante vi sarà versata nel grembo. Ma attenti, perché così come misurate sarà misurato a voi in cambio”. Accogliere la misura smisurata dello Spirito per essere smisuratamente protagonisti del dono di noi per essere nel mondo misura smisurata di lui che ha ripreso la sua vita solo perché l’ha donata, che l’ha ritrovata perché l’ha persa. Perché non far valere per noi la stessa logica?


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