Domenica 19 luglio 2020 – 16° TOA – Matteo 13,24-43
Nel rito del battesimo ad un certo punto si fa indossare al battezzato la veste bianca. Abbiamo sempre pensato fosse la veste da non sporcare, segno di una vita che non scende a patti col male e resta immacolata. Sì, ma correndo il grande rischio di non viverla la vita, per mantenerla così, per preservarla dal peccato. La vita ti imbratta, non può essere altrimenti. Vivere una vita sterilizzata è come non vivere. Allora indossare quella veste è indossare Cristo la cui vita è stata davvero contagiata, direi sporcata o comunque segnata dal contatto con la vita di tanti. Qualche esegeta ardito vede nel figlio cosiddetto prodigo, il figlio minore, quello che se ne va di casa, niente meno che Gesù che si lascia macchiare la vita entrando nella storia, condividendo le fatiche, le contraddizioni, il dolore degli uomini che ha incrociato. A quel figlio che torna il padre fa indossare una veste nuova. Quella veste, la stessa del battesimo è quella di cui si ricopre l’uomo che la vita non l’ha evitata, non l’ha bypassata, non l’ha ignorata. È la veste che i soldati si spartiscono ai piedi della croce come fosse una reliquia. In quell’indumento consunto il sunto di una vita che è come il campo di cui si racconta in una delle parabole di questa domenica. Vita in cui grano e zizzania germogliano e crescono. Il bene e il male? La gioia e il dolore? Il bello e il brutto? Il buono e il cattivo? Ma quale vita non scorre sui binari della convivenza degli opposti e delle contraddizioni? Nella parabola ad un certo punto entrano il campo dei servitori zelanti che suggeriscono al padrone di estirpare brutalmente la zizzania. Ieri (l’altra) sera confrontandomi, en passant, con don Vittorio sul vangelo di oggi ci si diceva che non raramente vite che anelano alla perfezione smettono di essere umane, uomini e donne che mirano alla santità corrono facilmente il rischio di trasformarsi in demoni. È così! Una vita perfetta, senza incrinature e sbavature, potremmo sognarla tutti, ma non è la vita che ha condotto Gesù, e comunque non è detto sarebbe vita. Sarebbe tutt’al più un prodotto di laboratorio, sterilizzato ma infecondo. La fecondità è quella che ben descrive la seconda parabola di oggi: un seme infimo come quello di senape, piccolo come la vita di tanti, contiene la promessa di un’esistenza davvero evangelica se poi i rami di quell’albero che cresce diventano casa per chi passa, per chi transita, per chi cerca riparo. Ed è questo poco, come il lievito, che ingrandisce e moltiplica ciò con cui entra a contatto. E non è sufficiente? Belli i prati all’inglese ma sono belli anche quei campi in cui cresce un po’ di tutto, dove i colori si moltiplicano e i profumi si confondono, dove tutto non è utile, dove tutto forse non è gradevole, dove tutto non è buono, ma la vita non la butti perché anche ciò che patisci insaporisce il frutto.
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