Domenica 27 giugno 2021 – XIII TOB – Marco 5,21-43
“Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi”. Il libro della Sapienza ci consegna questa parola ma di fatto l’umanità da sempre fa i conti col patire e col morire. “Dio ha creato l’uomo per l’incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura” ma di fatto l’esperienza che facciamo è un’altra. La responsabilità di chi è, se non è di Dio? Del diavolo, sentenzia Sapienza, e dell’invidia che è veleno che uccide la vita. Moriamo per l’invidia. È l’invidia di chi non abita con serenità la ricchezza che la propria vita può esprimere e sogna, o piuttosto brama, di potersi esibire per quel che non è, emulando altri che immagina più capaci, più attrezzati, più scaltri nel gestire il patrimonio di vita che hanno fra le mani. Non so se questa premessa ci autorizza a leggere il lungo vangelo di questa domenica come la reale fatica di due donne a smettere di pensare di essere inadeguate per vivere, magari invidiando chi ci sta riuscendo. È vero anche che l’inadeguatezza sovente ci viene instillata da fuori, da chi non sembra disposto ad accordarci fiducia e ci sottrae così la forza per averne in noi di fiducia. Amo la lettura psicoanalitica, e certo pur parziale, che Eugen Drewermann, teologo tedesco, fa della Scrittura. Rispetto al testo in questione questo studioso afferma che la donna con le sue perdite di sangue è come non riuscisse a trattenere la vita perché sempre condizionata a pensare che non la si abita gratis, ma che tutto, anche nelle relazioni ha un prezzo da pagare. E allora sembra che io non possa chiedere ma solo dare… il sangue che le esce traduce questa immagine. Gli altri sono come sanguisughe che elemosinano, se non pretendono, continue prestazioni. In Gesù questa donna titubante e condizionata intravvede la possibilità di un riscatto… chiedere senza pretendere, senza che si esiga ancora qualcosa. Se ti accordo fiducia non hai più bisogno di invidiare nessuno. È questo che Gesù sa fare con la donna del vangelo restituendola alle sue possibilità. Ancor più drammatico è il racconto che include il precedente, una ragazza di dodici anni incapace di fiorire, di diventare donna perché definita dal ruolo in cui è stata imbrigliata, costretta nella percezione di sé a partire da quanto hanno in mente gli altri. È una donna che deve poter morire ad un’idea di sé che le hanno affibbiato per poter vivere nelle sue personali possibilità e non più come ombra o copia. La parola con cui Gesù la rimette in piedi e la riconsegna alla vita, cioè alla sua libertà, è kum. Alzati per intraprendere la strada che sei in grado di percorrere da te, alzati e decidi da te la direzione da dare alla tua vita. Nella lettera ai Corinzi Paolo parla di uguaglianza come il risultato di un’abbondanza che supplisce all’indigenza. Gesù è colui che spegne l’invidia facendosi povero e arricchendoci per mezzo della sua povertà. Spegnere l’invidia. Forse possiamo riuscirci anche noi innanzitutto non provocandola e soprattutto riconoscendo la ricchezza e la bellezza dei cammini di ciascuno e promuovendo negli altri passi di libertà. Kum è una parola che potrebbe frequentare un po’ più spesso anche il nostro vocabolario.
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