Domenica 12 settembre 2021 – 24 TOB – Marco 8,27-35
Gesù fa domande ai suoi sul suo conto. Strano? Non più di tanto. Quanto abbiamo bisogno dei rimandi degli altri per capire chi siamo… Gesù non sembra andare a caccia di like per il proprio profilo Instagram o di pollici alzati e cuoricini per i suoi post su Facebook. Sta solo tentando di capire di sé a partire dagli altri. Inevitabile! Ciò che tu mi riconsegni di me mi può aiutare ad abitare con più consapevolezza la mia pelle. Chi sono? Me lo raccontano gli altri… spesso. Da loro sento ciò che mi piace e, se lo voglio sentire, anche ciò che mi piace un po’ meno. Chiaro, non posso essere solo in balia degli altri, delle loro impressioni, dei loro giudizi. In psicologia esiste la cosiddetta finestra di Johari, schema messo a punto nel lontano 1955 a due psicologi statunitensi. Il soggetto viene come sezionato in quattro quadranti e l’oggetto dell’analisi è lo studio del sé e del sé in relazione. Il primo quadrante è chiamato arena: sono le informazioni sul sé note al soggetto e agli altri. La facciata, il secondo quadrante, sono le informazioni che la persona conosce di sé ma che gli altri ignorano. Il terzo quadrante è chiamato punto cieco: le informazioni sulla persona sono note agli altri ma oscure alla persona stessa. L’ultimo quadrante è detto ignoto: sono le informazioni sul soggetto sconosciute a tutti. Siamo questa complessità! È chiaro! Resta uno schema che non intende ingabbiarci, tutt’al più un attimo più consapevoli del fatto che siamo, più pienamente noi stessi, se in relazione e in virtù delle relazioni. Sul chi sono gli altri possono offrirmi il loro sguardo, ne ho bisogno. Ma da qui in avanti, a cosa rispondere? Alle aspettative? Ma a quelle di chi? Pietro è bravo a dire di Gesù, la sua risposta sembra esatta, sembra corrispondere perfettamente a ciò che Gesù stesso è arrivato ad intuire, a conoscere, di sé. Ma dire Cristo cosa significa? Non è semplicemente un titolo da esibire, sotto la cui ombra magari cercare di avvantaggiarsi, è invece vita chiamata a comporre le parole di un vocabolario difficile: sofferenza, rifiuto, morte. È una lingua che il discepolo non vorrebbe parlare. Gesù stesso l’ha imparata frequentando il mondo e scegliendo di abitarlo non al riparo dei titoli, dietro il paravento di posizioni acquisite. Chi sono, qualcuno può anche dirmelo, ma chi posso essere me lo può dire anche colui a cui non lo chiederei, per timore, per convenienza, per sufficienza. Pietro, ti costa dire Cristo? Vorresti non ti costasse. Ma dire a qualcuno chi è, è dire anche a me chi sono o chi non sono. Mai senza l’altro, gli altri, scriveva Michel De Certau. L’altro che mi consegna un volto e mi riconsegna il mio. Siamo sì uomini e donne ma significa tante cose e così contrastanti, così fra loro inconciliabili fra loro a volte. Vangelo dice uomo in un certo modo e quindi escludendone chiaramente altri. Devo accettare, come Pietro, che a tratti lui mi dica: dietro, perché uomo secondo Dio è altra cosa rispetto a quella che stai fabbricando tu. Se uomo è buone parole, fossero anche quelle del vangelo non sarebbe sufficiente, ci dice Giacomo. La strana equazione che esce dalle pagine del vangelo, anche quella letta oggi, mi dice che chi sono e mi dice anche cosa ancora non sono. Salvare è perdere! Dire Cristo è dire questo. Dire il mio nome è dire questo o qualcosa di diverso? Perdere è salvare? Perdersi è davvero, per me, ritrovarsi?
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