Domenica 19 aprile 2020 – II di Pasqua – Giovanni 20,19-31
Pace a voi… dice ancora il Risorto, a noi che siamo, per necessità, per paura, stavolta giustificata, asserragliati nei nostri cenacoli. Pace a voi. E poi, come leggiamo dal vangelo di Giovanni, in forza del dono dello Spirito, l’invito ad andare. Sì, ma dove, cosa scriveremmo sull’autocertificazione? In missione per conto del Risorto? Il rischio di una sanzione sarebbe altamente probabile. “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”. In realtà quanto c’è da perdonare e da farsi perdonare tra le mura di casa, nello spazio angusto e a tratti ormai asfittico delle relazioni quotidiane? Tempo, questo, per curare le relazioni domestiche, a tratti più faticose ed esigenti delle altre, perché tutti lungamente esposti ai soliti altri, in una prova a tratti ardua, perché vestiti solo della nostra fragilità. Nessun alibi, nessuna possibilità di svicolare all’angolo, nessun sotterfugio… non si scappa. Consegnati l’uno all’altro nella sfida di un’accoglienza piena e incondizionata. Ma che fatica a tratti. Penso a quello che viviamo come al tempo di un allenamento forzato per ritrovare, prima che finisca l’allerta, l’energia per stare dentro a relazioni un pochino più blande, perfino occasionali, quasi fortuite, con la stessa forgiata cura, con la stessa tornita premura a cui ci siamo dedicati, piacenti o nolenti, in questi lunghi giorni di pandemia, a quelle più prossime. Sta finendo l’allerta? Un allentamento delle restrizioni sembra in vista, allora non facciamoci trovare impreparati, è prossima l’occasione per esportare, spero non la tensione accumulata in questi giorni di reclusione, ma la distensione sperimentata nello stare al centro, non del giudizio spietato di qualcuno, ma di un’amorevole dedizione. Da tutte le parti ci si chiede come saremo dopo. Speriamo non peggio di prima, l’adesso ci serva ad essere davvero migliori poi, fra poco o tanto, ancora non si sa bene. In ogni caso, corpi, i nostri, che si sono non solo sfiorati, corpi che si sono toccati nella loro vulnerabilità. Abbiamo sempre etichettato negativamente l’apostolo Tommaso. E se fosse uno che ha solo bisogno di toccare l’amore, non per crederci o non crederci, ma per vivere di ogni gesto che lo dice. Nel passo che abbiamo letto non sappiamo se Tommaso si sia accontentato di vedere o se abbia davvero voluto anche toccare. È celebre il dipinto di Caravaggio che ritrae questa scena evangelica. Lì, Cristo, in maniera evidente tira a sé il dito di Tommaso per ficcarglielo dentro la ferita al costato, per fargli sperimentare la verità di quel dono. A cosa credere? Al corpo segnato, perfino sfregiato, dal bene di cui sono destinatario. Averne fatto esperienza intima ci provochi ad abitare anche relazioni meno prossime con lo stesso trasporto, con la stessa intensità, con la medesima densità. Certo non c’è più quel corpo, quello del Risorto, a raccontarmi l’amore ma c’è quello di tanti altri che continua a raccontarmi la stessa storia di dedizione, di offerta. E c’è il mio per non mettere il punto a questa storia che può continuare in corpi che ostinatamente possono dire la stessa verità. Sono i tanti segni non scritti, sono il vangelo che continua ad essere vissuto nei solchi di una storia di dono che continua.