Domenica 27 aprile 2025 – II dopo Pasqua C – Giovanni 20,19-31

Pubblicato da emme il

Tommaso è soprannominato Didimo che significa gemello, anche se il nome aramaico Ta’ oma significa proprio gemello. Comunque, o Tommaso aveva davvero un gemello oppure il soprannome incarna la sua ambiguità, la sua doppiezza, il suo altalenare tra una posizione e un’altra, la sua incertezza, la sua indecisione. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio, recita il detto. A Tommaso non bastano i segni di cui Gesù ha disseminato il suo percorso nell’esercizio del suo ministero pubblico. Avrà assistito in presa diretta ad un sacco di situazioni in cui Gesù ha dato prova di poter governare, tacitare, confinare la morte e di saper far rigermogliare la vita in tanti uomini e donne annichiliti, annientati. La sua incredulità è l’incapacità di abbandonarsi alla fiducia. Non si fida di ciò che ha visto e non si fida di ciò che gli raccontano, non degli estranei, ma gli amici più stretti. Fidarsi o non fidarsi? Non ci fidiamo abbastanza e la sfiducia dilaga e incupisce il mondo. Lo Spirito soffiato sui discepoli la sera di Pasqua, come leggiamo da Giovanni, è la forza che infonde, nei cuori di chi ha paura, nuova fiducia. Gesù lega il dono dello Spirito alla questione del perdono. E perdonare cos’è se non tornare ad accordare fiducia a qualcuno? Non perdonarlo è non concedergli credito, è darlo per spacciato, è dichiararlo fallito. Il perdono è sguardo che va oltre, è ciò che ti consente di abitare il futuro. C’è un altro nome che una pagina di vangelo contemporaneo ci ha riconsegnato con insistenza in questi tempi e in questi giorni in particolare: Francesco. Se Didimo significa doppio, ambiguo, Francesco e quindi franco significa tutt’altro: autentico, sincero, coraggioso. Francesco è l’uomo che ha continuato a seminare fiducia: sognando la pace e immaginando che l’uomo potesse tesserla ancora; non stancandosi di affermare che, sempre, l’unica risposta alla miseria, al fallimento, è la misericordia; sbattendoci caparbiamente in faccia la dignità dei meno attrezzati, dei meno fortunati, dei meno adeguati, perché la riconoscessimo e la promuovessimo; provocandoci ad abitare la casa comune con responsabilità, senza ingordigia, perché sia di tutti oggi e sia di tutti anche domani. Tommaso: metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la mano e mettila nel mio fianco… almeno ci serva mettere il dito nelle ferite. Dopo avercelo messo potremmo attrezzarci per cauterizzarle con l’oro, l’oro nelle ferite dicono all’abbazia di Romena richiamando l’antica tecnica giapponese dello kintsugi, aggiustare ciò che si rompe saldando fra loro i pezzi rotti usando proprio l’oro. È spreco, direbbe qualcuno. No, è fiducia! Nella dimora delle nostre e delle altrui debolezze c’è la chiave del mio, del tuo, del nostro sbocciare.


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