Domenica 4 di Pasqua – 3 maggio 2020 – Giovanni 10,1-10

Pubblicato da emme il

Se c’è una porta significa che il recinto è rotto, che il muro è sbrecciato. La presenza di una porta nel perimetro di un muro può rappresentare una minaccia. Potrebbe essere di fatto l’elemento più fragile che consente ai malintenzionati di penetrare nel recinto e far razzia di quanti vi stanno dentro, potrebbe essere quell’accesso che, scardinato, fa scappare senza una rotta, senza una destinazione precisa, chi prima era ricoverato e protetto all’interno. Se dicessimo che, quelli che stiamo vivendo, sono tempi in cui siamo costretti, non dentro, quanto piuttosto fuori dal recinto? Non ci è ancora consentito ritrovarci per celebrare la nostra fede, per ritessere i legami, per rifondare la nostra identità. Siamo fuori perché cacciati fuori da un brigante invisibile, un brigante e ai cui complici potremmo dare la colpa di questa forzata latitanza, di questa patita diaspora, che sembra pesare a larga parte della comunità credente, del gregge abituato a ritornare, almeno quando fa sera, fra le mura sicure del recinto. Ma se fossimo a spasso insieme al nostro pastore, se con lui davanti stessimo cercando, come abbiamo pregato nel salmo, il verde riposante dei prati e onde di calma? Gesù è la porta! E se esiste una porta è fatta per entrare, ma è certo fatta anche per uscire. Siamo fuori, ma con lui, alla ricerca della verità di noi, non più negli spazi angusti ma rassicuranti del recinto, quanto piuttosto nella sterminata distesa del mondo. La nostra fede è messa in gioco lì, a contatto con l’aspro mondo. Ma il pastore viaggia con noi e ha il nostro odore. Cosa temere? Siamo dentro il tempo di una lunga, forse estenuante, interminabile transumanza. Ma posso benedire questo tempo e questo viaggio se mi riconsegna alla verità di me, alla libertà di cercarla. Certo religioso a cui mi appiglio potrebbe in realtà essere non così sicuro e non aiutarmi davvero a liberare la vita, a cercarla in abbondanza anche fuori, perché no… il mondo l’ha creato lo stesso Dio, che l’ha riconosciuto buono. È il tempo di gustare la bellezza di sguardi più larghi, più lunghi, di riconoscere il buono che è seminato ovunque. Non fa male uscire. Nutro questi pensieri a partire dal vangelo di questa quarta domenica di Pasqua. Il recinto di cui Giovanni parla potrebbe essere l’aulè (come dice il greco), il recinto del tempio di Gerusalemme in cui il popolo di Dio, come fosse un gregge, viene radunato. Ma ricordiamoci che le pecore ricoverate in quel recinto potrebbero rimandare a quelle che sono condotte lì per essere destinate al sacrificio. Che Dio sia la porta di quel recinto, se si parla della possibilità di uscire, significa che la vita va cercata altrove. Non là dove l’idea di Dio è falsa ed è di conseguenza deviata anche l’idea di uomo. Chi è Dio? colui che devi imbonire, colui di cui devi guadagnarti il favore, il compiacimento. Ma a quale prezzo? In questa visione religiosa chi è l’uomo? Non può essere l’emblema del sacrificio e quindi di una vita vissuta cupamente. “Non capisco come fate a credere che quell’uomo crocifisso sia il figlio di Dio”, mi diceva proprio ieri Assan, il giovane musulmano che sta in casa con noi. Quell’uomo in croce è Dio stesso che è sì il pastore ma è anche l’agnello. È colui che sta dentro per consegnare se stesso e risparmiare me. Ed è colui che mi porta fuori per dirmi di cercare la vita e di nutrirla ovunque ci sia una sorgente che possa alimentarla. Benedetta porta che mi permette di uscire ad assaggiare la vita. Benedetta porta che mi consente di rientrare per condividere con chi sta dentro il bello e il buono che ho assaporato fuori. Intanto fuori… non abbiamo scelta, ma arriverà il tempo in cui ritrovarci per condividere la ricchezza di quanto abbiamo gustato. Intanto facciamo eucarestia là dove si può, forse è il posto più vero in cui farla.

Comincio questa eucarestia prendendo a prestito le parole di un profeta contemporaneo che conoscete tutti… si tratta di don Tonino Bello, sono parole che ha scritto per una rivista nel lontano 1985. Ve le consegno perché le ho ricevute a commento di quanto in questa settimana si è scritto e detto a proposito del tornare a celebrare, del tornare a rioccupare gli spazi di una liturgia condivisa. Sentite cosa dice… e mettetelo poi insieme col vangelo che ascolteremo fra un po’ in questa quarta domenica del tempo pasquale… la cosiddetta domenica del Buon Pastore.

“Una Chiesa povera, semplice, mite. Che sperimenta il travaglio umanissimo della perplessità. Che condivide con i comuni mortali la più lancinante delle loro sofferenze: quella della insicurezza. Una Chiesa sicura solo del suo Signore, e, per il resto, debole. Ma non per tattica, bensì per programma, per scelta, per convinzione. Non una Chiesa arrogante, che ricompatta la gente, che vuole rivincite, che attende il turno per le sue rivalse temporali, che fa ostentazioni muscolari col cipiglio dei culturisti. Ma una Chiesa disarmata, che si fa “compagna” del mondo. Che mangia il pane amaro del mondo. Che nella piazza del mondo non chiede spazi propri per potersi collocare. Non chiede aree per la sua visibilità compatta e minacciosa, così come avviene per i tifosi di calcio quando vanno in trasferta, a cui la città ospitante riserva un ampio settore dello stadio. Una Chiesa che, pur cosciente di essere il sale della terra, non pretende una grande saliera per le sue concentrazioni o per l’esibizione delle sue raffinatezze. Ma una Chiesa che condivide la storia del mondo. Che sa convivere con la complessità. Che lava i piedi al mondo senza chiedergli nulla in contraccambio, neppure il prezzo di credere in Dio, o il pedaggio di andare alla messa la domenica, o la quota, da pagare senza sconti e senza rateazioni, di una vita morale meno indegna e più in linea con il vangelo” (don Tonino Bello, Natale i poveri esistono ancora, in Rocca, 15.12.1985, pag. 45-47).


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