Domenica 7 febbraio 2021 – 5^ TOB – Marco 1,29-39
Gesù, uscito dalla sinagoga… E noi usciti di chiesa, dove andremo? Cosa faremo? Chi saremo? Andremo ad organizzarci per il pranzo o la cena, a prendere le pizze che abbiamo ordinato, a prepararci per una passeggiata domenicale, a metterci davanti alla televisione, a sbrigare gli arretrati… e va bene, la vita è questo! Dalle chiese alle case, non solo le nostre magari. E lì, dove la vita scorre, generalmente trafelata, entrare e tentare, come fa Gesù, di avvicinarci all’umano per far svanire le febbri, le alterazioni che ammalano e bloccano un’esistenza. Una tachipirina 1000 fa tanto ma quanto più fa un corpo che si avvicina, una mano che ti tocca, la forza che travasi da te ad altri per rimettere in piedi una vita, per rifarla autonoma? Guarì molti… leggiamo dal vangelo di Marco. Che vite abbiamo contribuito a rigenerare ultimamente con la nostra presenza, per il fatto di esserci stati, di esserci interessarci, di aver avuto cura? Al contempo non sarebbe male domandarsi se abbiamo anche contribuito a infiacchire ulteriormente altre vite perché semplicemente non ci siamo stati, perché abbiamo girato al largo dagli ami che hanno gettato perché abboccassimo. Esserci per guarire e da che cosa? Dalla solitudine, dalla paura di non farcela, dalla mancanza di speranza, cose tutte gridate da un esercito di Giobbe che popola la scena del nostro mondo come lo popola da sempre. Sì, ho prestato orecchio a qualche lamento, ho messo il cuore dentro l’affanno di qualcuno, ma che fatica, il tuo dolore mi avvinghia e allora mi difendo, ne sto anche un po’ alla larga. Ma come dosare l’esserci e il non esserci? E così tento di entrare nella seconda parte del vangelo di oggi per illuminare una frase assai strana: “Andiamocene altrove”. Lo dirà Gesù in reazione al: “Tutti ti cercano” che vengono a dirgli i discepoli. A volte esserci, esserti accanto significa anche usare la tua debolezza, il tuo stato di bisogno per gratificare i miei bisogni, per colmare i miei vuoti. Esserci e sostituirti per darmi l’illusione di essere necessario, quindi importante, irrinunciabile e offrire a te la possibilità comoda di confermare che non puoi farcela. Se non esserci a volta è puro esercizio di egoismo a volte non esserci è anche necessaria pratica di libertà e di liberazione. Non ci sono perché adesso tocca a te. Non ci sono perché non tocca più a me. Il confine tra l’esserci per sostenerti ma col rischio di prevaricare e il non esserci per consegnarti a te stesso ma col rischio di fregarmene di te è sempre così sottile. Trovare la misura non è facile. A volte nei rapporti personali ma anche sociali, politici o ecclesiali esserci diventa come occupare in solitaria una scena e sequestrarla finendo per non far crescere e maturare nient’altro o nessun altro attorno a noi perché quel palco ci serve. Esserci come allora? A volte anche sparendo perché qualcun altro trovi terra assolata per far attecchire il proprio seme e non alberi incombenti e prepotenti che ti rubano la luce. Dosarci non è mai facile perché non è facile fidarsi dell’altro, abbiamo la presunzione di credere che quel che facciamo noi è sempre fatto meglio, che il nostro è il pensiero giusto. Esserci quel tanto che basta perché tu esprima le tue potenzialità, esserci quel che serve perché la tua vita possa tornare a servire. Ma diminuire perché l’altro cresca… quant’è difficile accettarlo. Ridimensionarci a favore dell’altro è operazione che domanda così tanta umilità, o quell’abbondante preghiera con cui Gesù riempie la sua notte.
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