OMELIA S. MESSA – memoria di SAN GIUSEPPE, patrono
don Stefano:
È vero che di solito leggo le mie prediche e quindi che i miei occhi non sono fissi su quanti ascoltano, certo è che fa uno strano effetto parlarvi e comunque non avervi qui, assembrati! (non si può). È una comunione meno facile ma comunque reale, intendiamo lo sia, magari ancor più reale. Potremmo fare come un prete, di non so più dove, che si è fatto spedire dei selfie dai propri parrocchiani e ha attaccato le loro foto ai banchi della chiesa cosicché quando celebra ha davanti agli occhi la sua comunità… Abbiamo deciso di incontrarvi a tre voci nella festa del patrono di una delle due comunità, Adriano presiede, io e Vittorio predichiamo nel tentativo di esercitare, pur a distanza, un’inusuale paternità ma soprattutto di raggiungervi in un’affettuosa fraternità, consapevoli che il momento non è facile per tanti, per qualcuno in particolare.
Resto brevemente sul vangelo di questa solennità.
La cosa che più mi colpisce, rileggendo questo brano arcinoto, è il fatto che la vita di Giuseppe vira in altre direzioni rispetto a quella che stava imboccando. Per la verità potrebbe assomigliare più ad un dirottamento. Le cose vanno in altro modo rispetto a quanto Giuseppe aveva deciso. Youssef significa in origine, Dio aggiunge. Dio aggiunge sì, ma il suo, e quindi una certa dose di imprevisto, di inatteso. Giuseppe fa le sue considerazioni, quelle che potrebbero portarlo a soluzioni radicali sì, ma non drastiche. E allora di nuovo Dio ci mette lo zampino e in un sogno risequestra Giuseppe trascinandolo dentro ad orizzonti che non aveva ancora intravisto e deciso di esplorare. Quel figlio, non suo, che può far suo dandogli, come fa Dio con quanto crea, un nome, potrebbe essere colui che porta salvezza. Allora con che coraggio abortire questa possibilità, con che coraggio ridimensionare questa opportunità. Ma le cose grandi, molto spesso, naufragano perché restiamo avvinghiati alla parte più meschina di noi, restiamo ancorati a quei piccoli progetti i cui confini coincidono con noi e non li oltrepassano. Oggi, vorremmo consegnare con Giuseppe, il faticoso transito dall’io al tu, dal mio al nostro, dal per me al per te, dal solo io all’anche tu, dal prima io al prima tu, o all’insieme… per qualcosa che davvero superi strette, anguste, sterili prospettive. Questo voglio imparare da Giuseppe, per vivere respirando largo, abitando possibilità meno asfittiche, paradossalmente anche in quest’oggi più costretto, più piccolo, più contenuto. Allora, che Dio aggiunga nella mia vita, come ha fatto nella vita di Youssef.
don Vittorio:
Giuseppe, uomo giusto. E proprio in virtù di questa giustizia che Giuseppe non pretende nulla per sé. Giuseppe rinuncia a ciò che non gli è dovuto, perché non suo. Una giustizia che si fonda sul merito; ciò che ho, ce l’ho perché me lo sono guadagnato! Un uomo onesto, potremmo dire, che non esige per sé nulla di più di quanto gli sia dovuto. Un esempio di onestà che sarebbe da emulare, specie di fronte alla logica, vecchia quanto il modo, del pretendere nell’ingiustizia profonda che toglie agli altri quanto non ci spetta. Ma Giuseppe è diverso anche in rapporto al senso profondo di giustizia che inizialmente lo aveva condotto a rinunciare di prender con sé Maria. E la sua diversità è data dalla sua capacità di lasciarsi guidare dalla mano di Dio che va oltre la logica della giustizia e che gli chiede un’obbedienza che supera anche il suo profondo senso di giustizia. Ecco allora Giuseppe che prende con sé quanto non è suo, aggiungendo al suo diventare padre non secondo la carne, una paternità che genera un figlio che non gli appartiene, crescendolo e educandolo, assieme a Maria, generando in Gesù la stessa cura per gli altri che quel padre ha avuto per lui e per sua madre. In questo Giuseppe non è rimasto chiuso nella sua giustizia, ma è andato oltre. Accogliendo il piano di Dio, Giuseppe ha obbedito alla logica del vangelo che eccede ogni giustizia legata al merito, ossia all’idea che quello che ho me lo sono meritato. La logica del vangelo, invece, supera questa logica, perché si colloca nell’eccedenza: quello che ho, lo devo solo alla Grazia che è frutto di un amore che supera ogni merito. In questo Giuseppe è l’uomo giusto nel senso della giustizia di cui parla la Scrittura, la Torah, ossia la giustizia come compimento di ogni attesa che si genera all’interno di una relazione. Giuseppe è il giusto che accoglie anche quanto non ha meritato e in questo porta a compimento ogni attesa che nasce all’interno di incontro tra noi fragili creature e il Creatore che fissa il suo sguardo su di noi, sguardo che esprime un amore che non ha misura. Noi siamo piccoli, siamo fatti di terra di humus e da qui deriva la nostra umiltà che è una condizione radicale più che un atteggiamento virtuoso, morale. Verso di noi che siamo piccoli, il Signore rivolge il suo sguardo e grazie al suo amore ci innalza a quella dignità che ci fa sentire grandi, non perché abbiamo fatto chissà cosa, ma grandi semplicemente perché siamo amati da lui nella nostra imperfezione. Quel sentirsi grandi è ciò che Maria canta nel magnificat “Ha guardato l’umiltà della sua serva” e che Giuseppe ha saputo accogliere nella capacità di un’obbedienza al disegno di salvezza che ha superato ogni giustizia, diventando lui stesso collaboratore del sogno di Salvezza di Dio.